Il 15 gennaio 1821 Leopardi scrisse sullo Zibaldone che soltanto gli uomini vili, deboli, o incostanti, sia per natura sia per lungo esercizio di sventure, «cedono alle necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzi il ripugnare a combatterla». Gli uomini grandi combattono contro la necessità, e odiano atrocemente e selvaggiamente gli dei, il fato sé stessi e la vita.
Dieci giorni prima, il 5 gennaio 1821, aveva esposto a Pietro Giordani l'idea esattamente opposta. «L'animo dopo lunghissima e ferocissima resistenza, finalmente è soggiogato, e ubbidiente alla fortuna. Non vorrei vivere, ma dovendo vivere, che gioca recalcitrare alla necessità?» E il 26 ottobre: «Essendo stanco di far guerra all'invincibile, tengo il riposo in luogo della felicità, mi sono con l'uso accomodato alla noia, nel che mi credevo incapace di assuefazione, e ho quasi finito di patire». In quei mesi Leopardi capovolgeva di continuo i suoi sentimenti: ora combatteva la necessità, ora chinava il capo sotto il giogo della fortuna. Per esprimere qualsiasi condizione psicologica, aveva dunque bisogno di attraversare sia quella condizione, sia quella contraria. Non poteva dire nulla senza conoscere il contrasto e la contraddizione. Solo così, impersonando le due parti opposte, essendo ora il ribelle ora la vittima, poté comporre la più grandiosa ribellione e condanna del fato e degli dei che egli abbia mai immaginato: il Bruto minore, stesso nel dicembre 1821, in venti giorni.
Citati, Leopardi