domenica 26 settembre 2010

Pompei casa del Fauno

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

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La Ginestra - Giacomo Leopardi
versi 202 - 236


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Parafrasi


Come un piccolo frutto, in autunno inoltrato,
la sola maturazione, senza il concorso di altre forze
(maturità senz'altra forza) fa precipitare a terra,
e cadendo schiaccia, annienta e sommerge (copre)
in un attimo i nidi scavati nel molle terreno
dalle formiche con grande fatica e lavoro
e provviste che quella gente laboriosa (l'assidua gente,
le formiche) avevano accumulato con previdenza,
a gara, durante l’estate; allo stesso modo
le tenebre ed una valanga (ruina) di ceneri,
di rocce laviche (pomici) e di pietre, miste a ruscelli
di lava (bollenti) piombando dall’alto,
(dopo esser stata) scagliata verso il cielo d
alle viscere fragorose (utero tonante) del vulcano,
oppure un’immensa piena di massi liquefatti,
e di metalli e di sabbia (arena) infuocata,
scendendo furiosa tra l'erba lungo il pendio della montagna,
sconvolse (confuse), distrusse (infranse) e
ricoprì (ricoperse) in pochi istanti le città
che il mare lambiva là sulla costa: per cui su quelle (città)
ora pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte
sopra quelle sepolte (a cui sgabello son le sepolte) e
l’alto monte quasi calpesta con il suo piede
le mura cadute (prostrate mura).
La natura non nutre più attenzione, nè maggiore
considerazione per la specie umana (seme dell'uom)
che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda (cioè gli uomini sono meno numerosi delle formiche: è dunque una questione statistica.)

(http://www.parafrasando.it/LaGinestra.htm)

Passeggiando per Pompei


Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de' mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all'amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

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La Ginestra (Giacomo Leopardi)
versi 1 - 51

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Parafrasi

Qui sulla pendice (schiena)
riarsa del tremendo (formidabil, latinamente 'spaventevole') distruttore (sterminator)
monte Vesuvio (Vesevo, latinismo),
che nessun altro tipo di vegetazione allieta,
spargi i tuoi cespi solitari intorno,
profumata ginestra,
appagata dai deserti (mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di prediligerli).
Ti vidi un’altra volta
abbellire con i tuoi steli anche le solitarie campagne
che circondano Roma (la cittade)
la quale città (Roma)
fu un tempo dominatrice di popoli,
e sembra che (par che)
(le contrade) con il loro cupo e silenzioso aspetto testimonino e ricordino al viandante (passeggero) il grande impero perduto.
Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante
di luoghi tristi e abbandonati dal mondo,
e sempre compagna di grandezze decadute.
Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti
dalla lava solidificata (impietrata),
che risuona sotto i passi del viandante,
dove si annida e si contorce al sole
il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea
torna il coniglio; furono (la serie fur...fur...fur... sottolinea e oppone alla desolazione il ricordo dello splendore delle città antiche)
villaggi prosperi e campi incolti, e biondeggiarono di messi,
e risuonarono di muggiti di mandrie;
furono giardini e ville sontuose,
soggiorno gradito all'ozio dei potenti (poichè queste città erano stazioni turistiche); e furono città famose
che il vulcano indomabile, vomitando (fulminando: spargendo lava)
torrenti di lava dalla sua bocca di fuoco (ignea) distrusse insieme con i loro abitanti. Ora invece una sola rovina avvolge tutto quanto (involve),
là dove tu dimori, o fiore gentile e, quasi compiangendo (commiserando) le altrui miserie, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Venga in questi luoghi colui che suole elogiare (esaltar con lode, esaltare con enfasi, con convinzione cieca) la nostra umana condizione (il nostro stato) e guardi quanto la natura benigna, amorevole (amante, detto con sarcasmo) si curi del genere umano.
E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza (possanza)
del genere umano, che la natura, crudele nutrice,
quando l’uomo meno se lo aspetta (ov'ei men teme),
con una scossa impercettibile in parte
distrugge in un momento e può con scosse un po’
meno lievi annientare del tutto all'improvviso (subitamente).
Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo
progresso dell’umanità (la citazione proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri).

(http://www.parafrasando.it/LaGinestra.htm)

sabato 25 settembre 2010

domenica 19 settembre 2010

Todi chiesa di San Fortunato

Costruita dai minori francescani, precedentemente dei monaci di Vallombrosa, fu iniziata nel 1292-1328 con la costruzione del coro e due delle quattro arcate, ripresa nel 1408, ma terminata solamente nel 1464. Nonostante ciò, la facciata non fu mai terminata (1415-58). Magnifico comunque il portale maggiore (1420-36), finemente scolpito con scene del Giudizio Universale, tanto da ricordare quello del Duomo di Orvieto. I due leoni in pietra, in cima alla scalinata, provengono dalla precedente chiesa romanica. L’interno è a sala, cioè con le tre navate della stessa altezza, une stile alquanto nordico, che però in Umbria si ritrova a Perugia, (S. Domenico e S. Lorenzo), divise da pilastri poligonali con volte a ogiva; si tratta del più grandioso esempio conservato in tutta l’Italia centrale.

Interno Chiesa S. Fortunato
Una rarità consiste nell’esistenza delle cappelle laterali, progettate fin dall’inizio (vedi anche S. Trinità in Firenze), mentre appaiono nel resto d’Italia solamente con il Rinascimento. Servivano da sepolcreti a pagamento per famiglie abbienti, finanziando in questo modo almeno in parte i costi della costruzione della chiesa. Essendo stata costruita in due tempi, si possono notare delle piccole differenze tra le due parti, soprattutto per quanto riguarda la prima coppia di pilastri e le finestre più piccole delle prime due arcate. Disturbano un poco gli arconi di sostegno aggiunti in un secondo tempo. Al primo pilastro di destra, si trova un’acquasantiera gotica, nella quarta cappella dello stesso lato, un affresco di Masolino da Panicale, “Madonna col Bambino e Angeli” (1432), nella quinta, affreschi della scuola di Giotto della prima metà del XIV secolo. La cappella successiva, non facente parte della costruzione originaria della chiesa, fu in precedenza la sala capitolare: mostra degli affreschi di Nicola Vannucci di Todi della fine del XIV sec.; sopra all’ingresso della cappella è stato posto il pulpito del XV secolo. Il coro poligonale contiene uno stallo ligneo di Antonio Maffei di Gubbio del 1590. La quinta cappella di sinistra contiene altri affreschi della scuola di Giotto, mentre la terza è decorata da Andrea Polidori (1618). Il primo pilastro di sinistra poggia su due capitelli sovrapposti: quello superiore, proveniente probabilmente dalla chiesa precedente, funge da acquasantiera.

Portale Chiesa S. Fortunato
Nella cripta sottostante è sepolto Jacopone da Todi (1230-1306), il fervido frate francescano, uno dei primi compagni di S. Francesco e appartenente all’Ordine dei Francescani Minori, poeta in lingua latina (gli viene attribuito il testo della famosa “Stabat mater dolorosa”) e, per primo, in lingua volgare italiana (le Laudi); in lotta con la Curia Romana, venne scomunicato e dovette rifugiarsi nel convento di S. Lorenzo di Collazzone, dove morì la notte di Natale del 1306.

Iacopone da Todi

Iacopone da Todi,
O papa Bonifazio, molt'ài iocato al mondo


O papa Bonifazio, molt'ài iocato al mondo;
pensome che iocondo non te 'n porrai partire!
Lo mondo non n'à usato lassar li sui serventi,
ched a la scivirita se 'n partano gaudenti.
Non farà lege nova de farnete essente,
che non te dìa presente, che dona al suo servire.
Bene lo mme pensai che fussi satollato
d'esto malvascio ioco, ch'al mondo ài conversato;
ma poi che tu salisti enn ofizio papato,
non s'aconfà a lo stato essere en tal disire!
Vizio enveterato convertes'en natura;
de congregar le cose granne n'à' auta cura;
or non ce basta el licito a la tua fame dura,
messo t'èi a 'rrobatura, como asscaran rapire.
Pare che la vergogna dereto agi iettata,
l'alma e lo corpo ài posto a llevar to casata;
omo ch'en rena mobele fa grann'edificata,
subito è 'n ruinata, e no li pò fallire.
Como la salamandra sempre vive nel foco,
cusì par che llo scandalo te sia solazzo e ioco;
dell'aneme redente par che ne curi poco!
Là 've t'accunci 'l loco, saperàilo al partire.
Se alcuno ovescovello pò covelle pagare,
mìttili lo fragello che lo vòl' degradare;
poi 'l mandi al cammorlengo, che se deia acordare;
e tanto porrà dare che 'l lassarai redire.
Quando nella contrata t'aiace alcun castello,
'n estante mitti screzio enfra frat'e fratello;
all'un getti el braccio en collo, all'altro mustri el coltello;
se no n'assente al tuo appello, menaccili de firire.
Pènsite per astuzia lo mondo dominare;
ciò ch'ordene l'un anno, l'altro el vidi guastare.
El mondo non n'è cavallo che sse lass'enfrenare,
che 'l pòzzi cavalcare secondo tuo volere!
Quando la prima messa da te fo celebrata,
venne una tenebria per tutta la contrata;
en santo non remase luminera apicciata,
tal tempesta levata là 've tu stavi a ddire.
Quando fo celebrata la 'ncoronazione,
non fo celato al mondo quello che c'escuntròne:
quaranta omen' fòr morti all'oscir de la masone!
Miracol Deo mustròne, quanto li eri 'n placere.
Reputavi te essare lo plu sufficiente
de sedere en papato sopre onn'omo vivente;
clamavi santo Petro che fusse respondente
s'isso sapìa neiente respetto al tuo sapere.
Punisti la tua sedia da parte d'aquilone,
cuntra Deo altissimo fo la tua entenzione.
Per sùbita ruina èi preso en tua masone
e null'o se trovòne a poterte guarire.
Lucifero novello a ssedere en papato,
lengua de blasfemìa, ch'el mondo ài 'nvenenato,
che non se trova spezia, bruttura de peccato,
là 've tu si enfamato vergogna è a profirire.
Punisti la tua lengua contra le reliuni,
a ddicer blasfemia senza nulla rasone;
e Deo sì t'à somerso en tanta confusione
che onn'om ne fa canzone tuo nome a maledire.
O lengua macellara a ddicer villania,
remproperar vergogne cun granne blasfemìa!
Né emperator né rege, chivelle altro che sia,
da te non se partia senza crudel firire.
O pessima avarizia, sete endopplicata,
bever tanta pecunia, no n'essere saziata!
Non 'l te pensavi, misero, a ccui l'ài congregata,
ché tal la t'à arrobata, che no n'eri en pensieri.
La settemana santa, ch'onn'omo stava 'n planto,
mandasti tua famiglia per Roma andare al salto;
lance giero rompenno, faccenno danz'e canto;
penso ch'en molto afranto Deo <'n> te deia ponire.
Intro per Santo Petro e per Santa Santoro
mandasti tua famiglia faccenno danza e coro;
li pelegrini tutti scandalizzati fòro,
maledicenno tu' oro e te e to cavalieri.
Pensavi per augurio la vita perlongare!
Anno dìne né ora omo non sperare!
Vedem per lo peccato la vita stermenare,
la morte appropinquare quand'om pensa gaudere.
Non trovo chi recordi papa nullo passato,
ch'en tanta vanagloria se sia sì delettato.
Par ch'el temor de Deo dereto agi gettato:
segno è d'om desperato o de falso sentire.


Invettiva contro Bonifacio VIII, violentemente accusato da Iacopone di nepotismo, avarizia, empietà, superstizione e eresia. Il poeta gli predice la dannazione eterna e allude sarcasticamente alla pratica comune di «male dire» il suo nome.

Metrica: 7+7 Y(y)X, AAA(a)X (il primo emistichio talvolta è sdrucciolo).


vv. 1-2 «O papa Bonifacio, in questo mondo hai giocato molto, ma credo che non te potrai partire giocondo!». iocato...iocondo: si noti il gioco di parole.

vv. 3-6 «Il mondo non ha l’uso di lasciare che i suoi servi partano gaudenti per la morte. Non farà quindi una nuova legge per farti esente da ciò e per non darti la liquidazione che normalmente dà ai suoi servi».

vv. 7-10 «Io avevo creduto che ormai tu ne avessi abbastanza del gioco malvagio che hai praticato in questo mondo; ma, da quando sei salito all’ufficio di pontefice, non si addice più al tuo stato desiderare una tal cosa».

vv. 11-14 «Il vizio inveterato si converte in natura, di accumulare i beni hai avuto gran cura; alla tua dura fame non è bastato ciò che era lecito e ti sei dato alle ruberie e a rapire come un masnadiero».

vv. 15-18 «Sembra che ti sia lasciato alle spalle la vergogna, hai messo anima e corpo ad arricchire la gente della tua famiglia; chi fa un grande edificio sulla mobile sabbia, subito va in rovina e non può non essere così». omo...ruinata: «Cfr. Matt 7, 26-27: «Omnis qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto, qui aedificavit domum suam super arenam. Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti, et irruerunt in domum illam et cecidit et fuit ruina illa magna». Bonifacio, quindi, «è simile allo stolto del Vangelo, perché ha rivolto il suo amore alle cose effimere di questo mondo» (Ageno).

vv. 19-22 «Come la salamandra vive sempre nel fuoco, così sembra che per te gli scandali siano piacere e gioco; sembra che ti curi poco della redenzione delle anime! Quale luogo ti si prepari, lo saprai al momento della morte». salamandra: motivo frequentatissimo nei bestiari e nella lirica provenzale e italiana: cfr. A. Menichetti, ed. Chiaro Davanzati, pp. LVIII-LIX.

vv. 23-26 «Se qualche vescovo può pagare qualcosa, lo assilli dicendogli di volerlo degradare; poi mandi il l’amministratore affinché si accordi con lui e potrà dare tanto che lo lascerai libero di tornare (al suo ufficio)». Ageno, Sull'invettiva, pp. 378-79 ha identificato il vescovo in questione con l’arcidiacono di Husillos.

vv. 27-30 «Quando ti fa comodo qualche castello con annesso latifondo, subito metti zizzania fra fratello e fratello; all’uno getti le braccia al collo e all’altro mostri il coltello; se non acconsente ai tuoi voleri, minacci di ferirlo».

vv. 31-34 «Pensi di poter dominare il mondo con l’astuzia; ciò che costruisci un anno, l’anno seguente lo distruggi. Il mondo non è un cavallo che si lascia tirare il freno e che tu puoi cavalcare a tuo piacimento!».

vv. 35-38 «Quando celebrasti la tua prima messa, tutto il paese si oscurò; in chiesa non rimase nessun lume acceso, tale tempesta si era sollevata laddove tu dicevi (messa)».

vv. 39-42 «Quando fu celebrata la tua incoronazione, al mondo non fu celato quello che vi accadde; quaranta uomini morirono all’uscir di casa! Con questo miracolo Dio mostrò quanto tu gli piacessi».

vv. 43-46 «Pensavi di essere il più adatto a sedere sul soglio pontificio, più di chiunque altro; chiamavi San Pietro affinché attestasse se sapeva qualcosa riguardo alla tua sapienza».

vv. 47-50 «Mettesti la tua sedia dalla parte del vento aquilone; la tua intenzione era contro Dio. Immediatamente ti accadde un’irreparabile disgrazia e non si trovò nessun medico che potesse guarirti». aquilone: cfr. Is 14, 13-14, dove Lucifero afferma: «sedebo in monte testamenti, in lateribus Aquilonis, ascendam super altitudinem nubium, similis ero Deo altissimo».

vv. 51-54 «Nuovo Lucifero che siedi sul soglio pontificio, lingua blasfema che hai avvelenato il mondo (in modo tale) che non si trova medicina (antidoto al veleno), fa vergogna proferire la bruttezza del peccato di cui sei infamato». spezia: Mancini, glossa ‘bellezza’, ‘cosa buona, nobile’ e spiega: «sì che (in esso mondo) non si trova più alcunché di bello e di nobile, ma solo bruttura di peccato». Contini, invece, prende atto dell’alterazione sofferta in questo punto dal testo e applica il verso a Bonifacio, nel senso che egli non risulterebbe «esente da nessun peccato, neppure i più infami». Mi sembra certo che spezia vale qui «medicina» e che vada riferita al verso che precede.

vv. 55-58 «Hai usato la tua lingua contro gli ordini religiosi, dicendo imprecazioni senza alcuna ragione; e Dio ti ha allora sprofondato in tanta confusione che ognuno si beffa di te, maledicendo il tuo nome». Continua qui il motivo della blasfemia del papa, cominciato nella strofe precedente e proseguito anche nella seguente: è evidentemente questo l'orribile peccato che fa vergogna persino menzionare. relïuni: con questo termine, in tutto il laudario vengono nominati gli Ordini religiosi, ma qui si fa riferimento a quelli in cui era praticata la povertà assoluta (Ageno, Sull'invettiva, pp. 384-85). maledire: gioca qui probabilmente con il nome del Papa, Benedetto, forse popolarmente «canzonato» dandogli del Maledetto. Cfr. in proposito Ubertino da Casale, Arbor vitae crucifixae, V, cap. VIII (Iesus falsificatus, riportato in Ageno, Sull'invettiva, p. 385): «dum legeret ad mensam ille qui melius scit, librum Iustini Martyris doctoris Greci super Apocalipsim, et venisset ad hunc locum, quando idem Iustinus, computando litteras Grecas, componit ex litteris huius numeri apud Grecos nomen istud Benedictos, quasi nominativus singularis huius nominis latini Benedictus, et dicit quod est nomen futurum predicte bestie».

vv. 59-62 «O lingua assassina nel dire cose villane e nel rinfacciare fatti umilianti con grande arroganza. Né imperatore, né re, né chiunque altro poteva prender congedo da te, senza che tu lo avessi ferito crudelmente».

vv. 63-66 «O malvagia avidità, sete che continuamente raddoppia e che porta a bere tanto denaro senza esser mai sazio! Tu, miserabile, non hai pensato per chi ne hai raccolto tanto: ché te la ha rubata qualcuno di cui non hai la minima idea».

vv. 67-70 «Durante la settimana santa, quando tutti piangevano, hai mandato il tuo séguito per Roma a divertirsi; ruppero lance, danzarono e cantarono; credo che Dio te ne debba punire con grande tormento». Il fatto è raccontato anche dal cardinale Pietro Colonna in una testimonianza al processo postumo contro Bonifacio: cfr. Ageno, Sull'invettiva, p. 387. salto: giostra, torneo.

vv. 71-74 «Hai mandato i tuoi cortigiani dentro San Pietro, dov'è il Santissimo, a fare danze e cori; tutti i pellegrini ne furono scandalizzati e maledissero le tue ricchezze, te e i tuoi cavalieri».

vv. 75-78 «Pensavi di poter prolungare la tua vita attraverso i sortilegi! Non si può sperare di ottenere ciò né per un anno, né per un giorno, né per un'ora! Vediamo che la vita termina improvvisamente mentre si è nel peccato, e che la morte si avvicina quando si pensa di gioire».

vv. 79-82 «Non trovo chi ricordi nessun papa del passato che si sia dilettato con tanta vanagloria; sembra che tu abbia gettato dietro il timor di Dio: è segno che ti senti senza speranza o nell'errore».

Todi tempio Santa Maria della Consolazione

Il Tempio di Santa Maria della Consolazione sorge ai piedi del colle di Todi. La chiesa fu costruita fra il 1508 d.C. ed il 1607 d.C. sul luogo di alcune guarigioni miracolose avvenute presso un edicola dove erano dipinte le immagini della Vergine col Bambino e Santa Caterina di Alessandria.

La tradizione vuole che un operaio privo della vista da un occhio, forse un certo Iole di Cecco, eseguendo l’ordine del comune di liberare dai rovi la zona presso le porte di Santa Maria e di San Giorgio avesse ripulito dalla polvere il volto dipinto della Vergine Maria con il proprio fazzoletto. In seguito, asciugandosi il volto e gli occhi con quello stesso fazzoletto avrebbe riacquistato miracolosamente la vista.
Il tempio della consolazione è uno dei più alti esempi di arte rinascimentale presenti in Umbria, Il progetto dell’impianto a croce greca, caratterizzato da cinque cupole, una centrale ed una per ogni abside della pianta del tempio, dovrebbe essere opera della scuola del Bramante, anche se alcuni lo vogliono frutto dell’opera di Cola di Caprarola ed altri di Antonio da Sangallo il Giovane. Tuttavia sembra certo che la direzione dei lavori sia stata affidata proprio a quest’ultimo che portò a compimento un tempio dalle forme di grande armonia alto circa 70 metri al culmine della lanterna che capeggia la cupola centrale. L'interno del Tempio di Santa Maria della Consolazione, caratterizzato dall’ariosità e dalla luminosità degli spazi tipiche del Rinascimento, ospita le statue di Papa Martino di Todi, quelle dei dodici apostoli e nell’abside nord presso l’altare barocco un’immagine della Vergine con il Bambino che viene ritenuta ancora miracolosa. La devozione degli abitanti di Todi per la Vergine e per il tempio che la città volle dedicarle è tale che per porre rimedio a quello che da più parti veniva ritenuto un vero scempio architettonico, ovvero la costruzione di una sacrestia nel 1613 appoggiata sul lato nord del tempio, tutta la cittadinanza insorse ottenendone infine l’abbattimento nel 1862 d.C.

sabato 18 settembre 2010

Duomo di Monreale (Pa)

Stupefacente!

Duomo di Todi

Iacopone da Todi

Jacopo de' Benedetti detto Jacopone da Todi (Todi, 1233 circa – Collazzone, 25 dicembre 1306) è stato un religioso e poeta italiano venerato come beato dalla Chiesa cattolica. I critici lo considerano uno dei più importanti poeti italiani del Medioevo, certamente fra i più celebri autori di laudi religiose della letteratura italiana.

Nato tra il 1230 e il 1236 da Iacobello, della nobile famiglia tuderte dei Benedetti, Iacopone studiò legge probabilmente all'università di Bologna e intraprese la professione di notaio e procuratore legale, conducendo una vita spensierata. Nel 1267 sposò Vanna, figlia di Bernardino di Guidone conte di Coldimezzo. La moglie morì l'anno seguente durante una festa, per il crollo del pavimento della stanza da ballo; dopo che sul corpo della moglie fu trovato un cilicio, Iacopone abbandonò la vita mondana e, distribuiti ai poveri i propri averi, peregrinò per dieci anni, vivendo di elemosina e subendo continue umiliazioni. Nel 1278 entrò come frate laico nell'ordine francescano, probabilmente nel convento di Pantanelli presso Terni, scegliendo la corrente rigoristica degli Spirituali, o "fraticelli", che si contrapponevano alla corrente predominante dei Conventuali, portatori di un'interpretazione più moderata della Regola francescana. Nel 1288 Iacopone si trasferì a Roma, probabilmente presso il Cardinale Bentivenga.

All'inizio del breve pontificato di Celestino V, gli spirituali, anche per merito di Iacopone che aveva mandato al pontefice una lauda, furono ufficialmente riconosciuti come ordine con il nome di Pauperes heremitae domini Celestini. Ma il nuovo papa Bonifacio VIII, acerrimo nemico delle correnti più radicali della Chiesa, non appena eletto, abrogò le precedenti disposizioni e la congregazione dei Pauperes venne così sciolta.

Iacopone fu tra i firmatari del Manifesto di Lunghezza del 10 maggio 1297, con cui gli avversari di Bonifacio VIII, capeggiati dai cardinali Jacopo e Pietro Colonna (appartenenti alla famiglia Colonna acerrima nemica dei Caetani cui apparteneva Bonifacio VIII), chiedevano la deposizione del papa e l'indizione di un concilio. La risposta di Bonifacio VIII non si fece attendere: scomunicò tutti i firmatari con la bolla Lapis abscissus e cinse d'assedio Palestrina, la roccaforte dei dissidenti. Nel settembre del 1298 Palestrina fu presa e Iacopone fu spogliato del saio, processato, condannato all'ergastolo e imprigionato nel carcere conventuale di san Fortunato a Todi. Solo alla morte di Bonifacio, nel 1303, fu liberato, vivendo poi gli ultimi anni a Collazzone Todi, dove morì la notte di Natale del 1306, nell'ospizio dei Frati Minori annesso al convento delle Clarisse.


(Descrizione Duomo di Todi a questo link: http://www.medioevo.org/artemedievale/Pages/Umbria/DuomodiTodi.html)

martedì 7 settembre 2010

Ignavi

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».

E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.

Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».