Il leader del popolo sovietico, autore fra l'altro di scritti di linguistica, si era reso conto che la letteratura utilizzava un'altra lingua, e che questa non coincideva con la sua. O meglio, aveva capito che non era strettamente un problema di lingua, perché Mandel'stam e Pasternak utilizzavano anche loro il russo. Aveva capito che non adoperavano le stesse parole. Insomma, aveva inteso perfettamente la lezione di Saussure e ne aveva tirato le conseguenze che sappiamo. La pratica non è certo finita con Stalin. Ne abbiamo preso coscienza con un certo spavento nel 1990 quando a Strasburgo costituimmo il Parlamento Internazionale degli Scrittori e una rete di città-rifugio dove accogliere quelli ai quali nei loro paesi si ambiva a tagliare la gola con recisione netta delle corde vocali, luogo deputato alla fonazione, cioè alla parola parlata prima che scritta. I nazisti hanno bruciato milioni di persone. Ma hanno cominciato col bruciare libri. Soprattutto quelli di letteratura, quella letteratura da loro definita 'degenerata'. Degenerata in quanto portatrice di una parola diversa dalla loro: una diversa visione del mondo. La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia. E il dubbio che ciò che l'istituzione vigente vuole sia così, non sia esattamente così. Il dubbio, come la letteratura, non è monoteista, è politeista. Peraltro le conseguenze dei pensieri monoteisti, che non nutrono alcun dubbio, sono sotto gli occhi di tutti.
Antonio Tabucchi, Di tutto resta un poco
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