sabato 14 aprile 2012
Spazio americano
Si pensa ai pionieri che nel XIX secolo solcavano in un grande volo sulla terra l'intero continente americano, da est veso ovest. Si pensa a tutta quella massa di gente in movimento che si spostava per inseguire un sogno. Si pensa al momento in cui lasciarono la costa dell'Altlantico, da Baltimora o magari da Richmond, disponendosi a un viaggio talmente lungo da essere senza tempo. E molti tra loro non sarebbero neppure arrivati. Ma poi, arrivare dove? Si attraversavano le pianure arse d'estate o sparse di tutto il bianco della neve d'inverno; si incontravano piccoli torrenti da guadare o fiumi enormi da superare.
Se si pensa all'America, si pensa a una vastità di spazi, alla dimensione dell'immenso e dell'infinito che per tutti noi è nata dalla letteratura dei libri e dalla visione dei film.
E anche quando a entrare in scena sono i pittori del XX secolo, noi compendiamo benissimo come la vertigine di quello spazio ottocentesco per la prima volta percorso, e anche da tanti pittori, resti ne cuore di tutti. Quelle pianure senza fine, quei corsi d'acqu tesi fino al nulla, insomma l'intera vastità della natura, sono rinati negli occhi di chi ha cercato modi nuovi per dipingere il senso di una vita dentro l'America. Anche quando Pollock dipingeva a metà del secolo il groviglio della materia colante; anche quando egli tesseva la sua tela di ragno colorata e fluttuante nel vuoto della luna. Anche quando Rothko e Morris Luis inondavano dei loro rossi dilavati la tela, rendendola fluttuante nel vuoto della luna. Anche quando Gorky tempestava quella stessa tela rimasta quasi intatta e linda, candida, di segni e graffiti, di trafitture, anche in tutti questi casi a tornare alla mente era il grande spazio americano, da cui tutto era sorto.
Marco Goldin, da Hopper a Warhol
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