Quando m'imbarco, m'imbarco da marinaio semplice, proprio davanti all'albero, giù a piombo nel castello, su in cima alla testa d'alberetto. È vero che il più delle volte mi fanno sfacchinare e saltare da una manovra all'altra come un grillo in un prato di maggio. E questa storia, dapprima, è piuttosto sgradevole; ti tocca nell'onore, specie se si proviene da qualche vecchia famiglia ben radicata, i Van Renselaer, i Randolph o gli Hardicanute. E più che mai, se proprio prima di cacciare le mani nel secchio del catrame, uno ha vissuto da padrone facendo il maestro di scuola in campagna, dove anche i più lunghi se la facevano sotto. Da maestro a marinaio, credetemi, il passo è forte, e per fare buon viso a quel giochetto ci vuole una potente digestione di Seneca e degli Stoici. Ma anche a questo, col tempo, ci si abitua.
Che importa se qualche vecchia carogna di un capitano mi ordina di prendere la scopa e spazzare i ponti? A che può ammontare l'offesa, se la pesiamo, voglio dire, sulla bilancia del Nuovo Testamento? Credete che l'arcangelo Gabriele possa stimarmi di meno, perché in quel caso particolare obbedisco con prontezza e rispetto a quel vecchio tirchio? Chi non è uno schiavo? Ditemelo. E dunque, per quanto i vecchi capitani mi facciano sfacchinare, per quanto mi sbattano intorno a spintoni e manate, io ho la soddisfazione di sapere che tutto è secondo giustizia; che ogni altro uomo viene servito, in un modo o nell'altro, su per giù allo stesso modo, o sul piano fisico o su quello metafisico, voglio dire; e così la pestata universale viene trasmessa dall'uno all'altro, e le mani di ognuno dovrebbero fregare le scapole dell'altro con soddisfazione di tutti.
Herman Melville Moby Dick
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