Non mi sono certo sbagliato tempo fa quando alla domanda "Che cos'è per Lei la felicità?" ho risposto che non avrei saputo dire cosa fosse, ma sicuramente era uno stato di moto a luogo con sosta brevissima. Qualcosa che intanto si muoveva da dov'era. Qualcosa che abbandonava lo stato di fatto dell'annoso momento ingrato, infelice, e usciva fuori: dal letto, da casa, dal suo brodo di coltura abituale rassegnato a riprodurre i ghirigori della mente con il suo doppio immaginario, dall'assiderante calduccio della culla ritrovata in cui ti culli e trastulli e langui da bravo bambolotto incanutito.
Uno staccarsi dall'asse del corpo stesso, un protendersi in avanti, un offrirsi di nuovo alle ferite, la felicità, l'immensa gratitudine per tutti e per nessuno di saper sanguinare ancora. Più rischiavi di cadere e più rischiavi di sbattere di nuovo la faccia in una pozzanghera, più
muovevi quei primi passi indispensabili a una qualsiasi felicità, serenità, a ogni gioia anche piccola e breve. Non era una questione di accomodarsi col cuore, occorreva imporsi d'autorità ai piedi. Che ti portassero fuori, anche fuori metafora.
Aldo Busi, Vacche Amiche
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