La ninfa salutare per eccellenza si chiamava Iuturna, Giuturna, come dice il suo stesso nome che viene dal verbo iuvare,
«far bene», «giovare». Le sue acque erano le piú benefiche, le piú
pure, saranno sempre le preferite da sacerdoti e malati. Un giorno
questa ninfa della salute sarà onorata con una festa, quella dei Iuturnalia, celebrata da tutti i Romani che avranno una relazione con l’acqua.
Si tramanda che fosse l’amante di Giano e la
madre di Fons. C’è però chi racconta che anche Giove fosse stato preso
da ardente passione per lei. Ma lei, crudele, non ricambiava e per
sfuggirgli si nascondeva fra boschi di fitti noccioli o si tuffava
nell’acqua. Giove irritato e umiliato convocò allora tutte le ninfe e
parlò loro cosí:
– Giuturna non vuole fare l’amore con me, il piú
grande degli dèi immortali, e cosí danneggia se stessa. Se aiuterete me,
in realtà darete aiuto a vostra sorella. Mentre lei fugge, ponetevi
sull’orlo della riva perché non possa immergersi nell’acqua del fiume.
Cosí potrò prenderla. Io ne avrò un grande piacere, e lei un grande
vantaggio.
Tutte le ninfe gli fecero cenno che sí, lo
avrebbero fatto. C’era per caso fra loro la bellissima Lara, figlia del
fiume Almone, un affluente del Tevere. A quanto pare nei primissimi
tempi (cosí sostiene un antico poeta) aveva il nome di Lala – dalla
parola greca lalē, chiacchierona – e in
effetti era una ninfa che non sapeva tacere. Quante volte suo padre le
aveva detto di tenere a bada la lingua, ma lei non poteva, non ci
riusciva. E cosí anche quel giorno non si frenò. Corse al lago della
sorella Giuturna e le riferí, per filo e per segno, le parole di Giove.
– Scappa, va via, non cercare rifugio nel fiume, – esortava.
Poi vide Giunone, la sposa di Giove, e ancora una volta non seppe tacere: – Tuo marito è innamorato della ninfa Giuturna.
Giove, si narra, divenne una furia. E senza
esitare strappò a Lara quella lingua che lei non usava a dovere. Poi
chiamò il dio Mercurio e gli ordinò di portare la ninfa fra i morti,
muta per sempre.
– Che resti laggiú, dove regna il silenzio, dove
nessuno ha piú voce, – tuonava. Mercurio, senza perdere tempo, prese
Lara e volò verso i luoghi silenti dei Mani, anime dei defunti e dèi
loro stessi del mondo di sotto. Ma lungo il percorso s’invaghí della
bellissima ninfa e senza darsi pensiero le fece violenza. Lei cercava di
implorare pietà, ma la sua bocca ormai muta non riusciva ad emettere
nessuna parola. Sembra che da quello stupro divino siano nati due figli
gemelli, chiamati Lari [cfr. p. 201] a ricordo del nome materno. Ma lei
cambiò nome adesso che non poteva piú cantare e parlare. E cosí Lara, la
chiacchierona, la ninfa indiscreta, divenne dea della discrezione, del
silenzio opportuno e prudente, e venne chiamata per sempre Tacita.
Tacita vuol dire «che fa tacere», dea invocata da
chi vorrà comportarsi da persona perbene, visto che a Roma essere di
poche parole sarà sempre considerata una grande virtú, per uomini e
donne. «Parla per ultimo, taci per primo», affermerà un noto precetto.
Tacita allora difenderà tutti dalla propria eccessiva loquacità, ma
soprattutto le donne, sempre inclini, si sa, a parlar troppo e anche
male [cfr. p. 125]. La storia di Lara, d’altronde, avrebbe insegnato che
le donne riescono a stare zitte solo se si strappa loro la lingua. La
muta dea del silenzio però avrà anche il potere di proteggere dalle
parole degli altri, cucendo labbra di maldicenti, bloccando lingue di
nemici pettegoli. Finire nella bocca degli altri sarà sempre per i
Romani un pericolo serio: si tratterà di una questione di pubblica
reputazione, di prestigio sociale e di onore [cfr. p. 348-49 e 216].
Tacita/Lara resterà per sempre nel mondo dei morti, dove è sovrano il silenzio, fra coloro che non hanno piú voce.
Miti Romani, Lucia Ferro e Maria Monteleone
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